La morte di Giuseppe Pontiggia, Giurato del Premio dal 1993 al 2000 nel ricordo di Renato Minore

28 giugno 2003


Giuseppe 'Peppo' Pontiggia è scomparso ieri mattina a Milano.
E' stato membro della giuria del Premio Teramo per sette anni. Il suo contributo dal 1993 al 2000 è stato prezioso ed il suo ricordo rimarrà vivo in noi tutti e nella città. Il suo nome resterà legato indissolubilmente alla manifestazione più prestigiosa di Teramo e non svanirà grazie ai suoi bei libri ed all'impronta discreta ma fondamentale che ha contraddistinto il suo legame con Teramo ed il Premio. 
Vogliamo testimoniare il dolore di questa perdita con un ricordo di un suo amico, Renato Minore, anch'egli giurato del Premio Teramo.
   
Il Ricordo di Giuseppe Pontiggia di Renato Minore

Il giocatore invisibile, alla fine,  ha vinto con una mossa a sorpresa, di quelle risolutive, purtroppo non solo negli scacchi. Giuseppe Pontiggia se n’è andato ieri mattina, stroncato da un collasso cardiocircolatoio presso l’ospedale milanese del Fatebenefratelli, dove nella notte era stato trasportato d’urgenza dalla sua bella casa di Via Farneti, con i suoi trentamila libri quasi mimetizzati da collaudati sistemi di luminosi soppalchi e di austere vetrine.
Se n’è andato il Peppo ad appena 68 anni, e nel pieno della sua creatività, dopo aver scritto quelli che restano i suoi libri più dolorosi e intensi,  Nati due volte e Prima persona. Nel primo, uscito nel 2001, con straordinario successo editoriale e un’eccezionale mobilitazione di lettori, aveva raccontato il travagliato e umanissimo rapporto tra un padre e un figlio disabile. Attingeva ad una dolorosa esperienza personale raggiungendo il massimo di pertinenza e di verità nel descrivere l’esistenza di un piccolo grande eroe, forte della sua stessa fragilità, con quel suo muoversi arrancando che turba in profondità il romanzo, come un ritmo segreto inciso dentro il moto dell’esistenza,  segnato nello stringersi a cappio del destino. Una interrogazione sull’enigmatica natura delle parole con cui ogni volta capita di girare intorno alle cose turbate dalla differenza del dolore.  Libro pietoso e mai vittimistico, crudele e tenerissimo, con una radicalità esatta e perturbante, irrorata da un vero stenografo dei sentimenti come era il Peppo.  Uno scrittore tra i maggiori del secondo dopoguerra il cui narrare era sostenuto da una coerente coscienza critica, grazie alla grande familiarità con la tradizione letteraria. Anche quella dei classici antichi, di cui è stato un lettore intelligente, capace di sperimentare sui loro testi modi stimolanti e vitali per riavvicinarli alla nostra contemporaneità.
Quello scrittore era anche un raffinato saggista che, in pieno accordo con il narratore, trovava la sua misura lavorando sulla proprietà, sulle sfumature, sulle variazioni minime della parole o delle parole. Un vero anatomista del linguaggio che, con la spietata leggerezza di una lama comica, grottesca, parodica, sapeva vedere dentro per scoprirvi tutti i sensi riposti, le scorciatoie, le infinite tagliole del fraintendimento.
Come gli era capitato –appunto- raccogliendo lo scorso anno i testi di Prima persona. Che ancora più, a rileggerli montati smontati, integrati, spostati, tagliati e cuciti dopo la loro prima destinazione pubblicistica sul 'Sole 24Ore', appaiono quelli un orafo o di un contemporaneo pittore di mosaici le cui tessere sono i fatti e le persone, i tic e i vezzi, le tendenze e le aberrazioni del vivere contemporaneo, con una continua domanda di senso. Quelle mutazioni del costume, quelle imposizioni delle mode culturali, quella paranoia dell'inesauribile chiacchiericcio politico e mondano che l'elastico della scrittura - ora bruciante e bruciato sulla tonalità aforistica ora più disteso nella qualità affabulante dell'apologo - modella e organizza su toni e registri insieme leggeri, pietosi e spietati.
Era un capitano di lunga navigazione, il Peppo, con la sua sapienza, la sua ironia, la sua dolce intransigenza, la sua splendida maturità letteraria, così dolorosamente stroncata. Il suo lavoro critico ed editoriale, come consulente per l’Adelphi e per la Mondatori è stato assai importante, essenziale con i pareri di lettura, i  suggerimenti di stampa, la presenza discreta e intransigente, i mitici risvolti di copertina dall’inconfondibile stile. Allievo a Milano di Anceschi con cui si era laureato con una tesi su Italo Svevo e collaboratore di quella autentica officina dalle tante anime che fu 'Il Verri',  aveva esordito a metà degli anni Cinquanta,  con un piccolo romanzo di formazione, La morte in banca, racconto fortemente autobiografico di un diciassettenne costretto per esigenze familiari a lavorare in banca e a dividersi tra il duro senso dell’esistenza e il mondo dei sogni con le sue aspirazioni più segrete.
Poi era seguito L’arte della fuga, un piccolo intelligente libro, riscritto molti anni più tardi come del resto quasi tutti gli altri. Pontiggia considerava il testo non come un 'feticcio', ma come qualcosa che non si può raggiungere e possedere fino in fondo, ma si può solo centrare in modo approssimativo e continuativo, in un processo davvero inesauribile.  Nasceva così quel processo di riscrittura e di lima continua che era diventato una piccola leggenda editoriale, con l’impiego una volta di oltre settecentocinquanta ore per correggere le bozze di un romanzo. Con il suo leggero contrappunto espressivo, L’arte della fuga si può a ben diritto considerare un assai coerente 'antiromanzo degli anni Sessanta' dove le scene del giallo si vanno componendo in un sequela di brevi frammenti, figure e temi presi come nel movimento di una fuga musicale a corrodere ogni certezza, a svuotare di senso ogni luogo comune.
L’identità, la menzogna, la dissimulazione, la fatalità, il gioco: sono i temi che tornano nei romanzi con cui Pontiggia si è poi imposto come un narratore dagli anni settanta: Il giocatore invisibile, Il raggio d’ombra, La grande sera. La storia di famoso professore d’università impegnato a scoprire un suo nemico capace di ogni nefandezza. La vicenda di un sedicente antifascista che durante il regime ha in realtà portato in carcere molti suoi oppositori. La parabola esemplare di un uomo che decide di scomparire senza lasciare alcuna traccia.  I romanzi di Pontiggia  formano un vero e proprio trittico, scivolano analizzando i doppi e i tripli fondi della realtà, i suoi risvolti ambigui, con un uso dominante del dialogo e dell’aforisma in chiave narrativa alla Kundera o alla Bernhard, e con la consapevolezza che 'la verità si nasconda nei dettagli, ma il dettaglio deve essere importante'.


 

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